Un caffè al bar

preparare-buon-caffe-barI migliori amici.
Quelli con cui puoi prendere al bar un caffè e smezzare una brioches. Senza dire una parola, in un dialogo fatto di silenzio e sguardi che raccontano più di quanto farebbero le parole, in un rispetto immenso per le guerre interiori che ognuno sta facendo e di cui l’altro sa tutto, senza bisogno che tu glielo dica o glielo debba raccontare.
E sapere che lì c’è tutto.
E che anche quella può essere la migliore conversazione.
‘Visi comunicanti’.

La signora Efisia

935737_647018518657380_231095322_nTorno a scrivere qui dopo tanto tempo.
Tante volte avrei voluto farlo ma poi sembrava che mancassero le parole. Non che le abbia ritrovate tutte, alcune giaciono in attesa di essere ripescate. Ma riprendere a scrivere qui è sempre un bell’esercizio, con me stessa.

Giovedì scorso sono andata in ospedale a trovare la nonna, che era lì da qualche giorno per una crisi d’asma.
Mi ha fatto impressione entrare nell’ospedale. Ho percorso tante volte i corridoi alla ricerca di quello giusto dove era la nonna e ho incrociato, guardando nelle stanze, tanti volti, per lo più di anziani.
Mi è venuto un groppo in gola, ma non capivo cosa lo muovesse.

Poi finalmente sono arrivata nella stanza giusta.
Nel letto accanto a quello della nonna c’era una signora con una flebo nel braccio che mi guardava.
Ad un certo punto mi ha detto: “Signorina, mi può fare un favore?”. “Certo!”.  “Mi può girare?”. “Ok”. L’ho girata e dopo mi ha chiesto di grattarle la schiena. Le ho grattato la schiena. Poi ha chiuso gli occhi, come per dormire.
Poi ha riaperto gli occhi e dopo un po’ la scena si è ripetuta.
Quando era ora di andarmene, mi sono voltata e le ho chiesto: “Come si chiama”? Lei mi ha risposto. “Efisia”. “Come scusi?”. “E-f-i-s-i-a”.
E’ una cosa che ho imparato ultimamente, quella di chiedere il nome delle persone che incontro. Mi capita al mercato, ai ragazzi che vendono gli occhiali davanti all’università… Crea un legame, chiedere il nome. Non è più solo un volto, è un universo che ti si staglia davanti e che tu per qualche minuto puoi accogliere dentro di te.
La signora Efisia. Prima di uscire dalla stanza mi ha fatto un grande sorriso.
Mi sono chiesta cosa vuol dire stare nel letto di un ospedale e avere bisogno che qualcuno ti gratti la schiena.
Sono uscita da quell’ospedale sotto la pioggia, senza ombrello. Con negli occhi il sorriso della signora Efisia che si è allargato davanti per ringraziarmi di quel piccolo servizio che le avevo fatto. Sentivo che il mio cuore per un po’ era diventato più largo e per qualche tempo aveva trovato spazio anche la signora Efisia.
Ecco, forse il groppo in gola entrando in quel luogo era la paura di non saper meritare una “vita piena”. Di non sapere avere un cuore largo. Un cuore capace di allargarsi. Che non condanna, che comprende, che accompagna.
Non ne sono capace, conosco i miei infiniti limiti con cui ho a che fare tutti i giorni. Ma almeno ci voglio, ci posso provare.

La bambina con le treccine

BimbaLei è una piccola bambina africana. Avrà al massimo 2 anni, ma forse arrotondo per eccesso. Ha delle belle treccine e accompagna sulla spiaggia mamma e papà, che lì, ogni giorno, vengono per provare a vendere qualcosa: lui delle borse, lei seduta su una sedia intreccia tutto il giorno le mani creando sulle diverse teste che le si pongono davanti treccine, quasi come quelle della sua piccola bambina.

Lei, nella sua innocenza, sgambetta per la spiaggia con un costumino fucsia che la rende riconoscibile in mezzo a quel marasma di gambe che affollano il bagnasciuga, e permette ai suoi genitori di tenerla d’occhio.

E’ così graziosa che quasi sembra una bambolina e in poco tempo diventa l’attrazione di quel pezzo di spiaggia. Tanti si fermano, la guardano, le sorridono.

I genitori invece faticano a tenerla d’occhio mentre passa in rassegna tutte le palette e secchielli che incontra sul suo percorso. Ad un certo una signora si rende conto della loro difficoltà e si mette a giocare con lei, a controllarla come se fosse sua figlia.

Noi “adulti” pieni di pregiudizi, guardiamo e dobbiamo mettere in rilievo il colore diverso della pelle dell’altro. I bambini invece giocano insieme, si prestano le cose, non guardano se la mia pelle è bianca, la tua nera, se ci capiamo o non ci capiamo. Sono diversità che non pesano.

Ci sono lì due bambine che la tengono d’occhio, fanno in modo che non possa scappare, fanno un girotondo insieme, se la portano dietro sul bagnasciuga, le offrono le loro formine.

I bambini. Ho capito quando qualcuno tempo fa diceva che “dobbiamo rimanere come i bambini”. Spensierati. Alla ricerca dell’essenza delle cose, prima di tutto.

 

Incontri

leggeroIeri sono uscita dal lavoro come sempre dopo una giornata intensa. Tanti pensieri per la testa e la voglia di arrivare a casa. Mentre mi incammino verso la fermata del tram sento una vocina chiamarmi: “Dani, Dani, Dani“. Mi giro e vedo il cuginetto nel cortile di casa sua, che girando in bici mi ha vista passare. Si ferma, mette giù la bici, va a chiamare la cuginetta che gioca nel cortile. E poi viene ad aprirmi.

Mi saltano addosso e io me li abbraccio.

E poi lui risalta sulla bici e lei va dall’amichetta che stava in cortile con lei.

Io esco e riprendo la mia strada verso il tram con un gran sorriso stampato in faccia e l’anima un po’ più leggera.

Due parole, doverose anche su Tauran: se le merita

Sono contenta dell’elezione del cardinale argentino Bergoglio a Papa, con il nome di Francesco.

Ma ci sarà tempo per fiumi di parole, su questo.

Ora che tutti i riflettori sono per Bergoglio, fatemi però dare, oggi, un abbraccio al cardinale Tauran, che ha avuto il compito di annunciare al mondo l’elezione del nuovo Papa. Colui che è stato chiamato al ruolo “incomodo” e paradossalmente più trasparente che esista, perché l’attenzione era tutta per il nome che avrebbe pronunciato, lui in fondo era un semplice megafono.

Ruolo che, come la flebile voce con cui ha dato l’annuncio faceva intuire, ha portato a termine nonostante sia malato (Parkinson), in modo umile e senza tirarsi indietro, senza paura di ‘esporsi’ così come era, alla piazza che aspettava impaziente, strappando non poca simpatia e tanta tenerezza. Ecco. Grazie Jean-Louis.

Dalla stessa parte, mi troverai

Pioggia e sole cambiano la faccia alle persone Fanno il diavolo a quattro nel cuore e passano e tornano e non la smettono mai Sempre e per sempre tu ricordati dovunque sei, se mi cercherai Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai Ho visto gente andare, perdersi e tornare e perdersi ancora e tendere la mano a mani vuote E con le stesse scarpe camminare per diverse strade o con diverse scarpe su una strada sola Tu non credere se qualcuno ti dirà che non sono più lo stesso ormai Pioggia e sole abbaiano e mordono ma lasciano, lasciano il tempo che trovano E il vero amore può nascondersi, confondersi ma non può perdersi mai Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai

Cosa meglio di questa canzone di De Gregori può esprimere la felicità di rincontrare dopo tanto tempo chi ha percorso e percorre tratti della tua vita con te. E vedere che tutto può cambiare, ma il volersi bene rimane nel tempo al di sopra di tutto. Come qualcosa che nemmeno il tempo, nemmeno la vita può cancellare. Noi siamo diverse, avendo preso per certi versi strade differenti…eppure tutto sembrava come quell’ultima volta che ci eravamo viste: e tutto ora sembra più prezioso. Che gran cosa che è l’Amicizia!