Adesso mi chiede i soldi

elemosina

Si vicina un africano. Un altro. L’ennesimo. “Adesso mi chiede i soldi…” penso e sbuffo. “Speak English?” mi domanda invece. Dall’ alto della mia impostazione accademica gli rispondo “Yes, I do”. “You do” ribatte lui e non per sorpresa, ma come sottile sberleffo alla mia risposta troppo corretta. Banale dire che della grammatica non se ne fa nulla lui. Mi parla della Nigeria (“adesso mi chiede i soldi” penso), mi parla del lavoro che svolgeva là e della sua sistemazione qua (“me li chiederà adesso i soldi” ripenso); capisco la metà, ma una parola risalta su tutte le altre: “beg”. Mi racconta la sua difficoltà a chiedere l’elemosina, a mendicare. L’ avevo capito, i soldi non me li ha chiesti! Mi chiede un lavoro invece. Un lavoro! Mi sento impotente. E insieme al lavoro capisco che mi sta chiedendo di riconoscere la sua dignità, di guardarlo come “la persona che era in Africa”. E’ ora di andare, ci salutiamo, sento però che manca un tassello: “what’s your name?”, “and yours?”. E’ la domanda magica: io non l’ho più guardato come l’ “ennesimo”, lui ha riacquistato un pezzo di consapevolezza di esistere.

Da un post di Marta P. su Facebook.

Cosa ho imparato dal Solitario

solitarioMi è capitato, ultimamente, di dare una sistematina al computer di un’amica. Tra le varie cose, siccome su Windows 8 i giochi sono a pagamento, le ho installato una suite alternativa e gratuita. E così mi sono ritrovata davanti al Solitario, che non utilizzavo più da qualche anno.

Essendo un periodo un po’ di stress vari, ho pensato che era l’occasione per ridargli una spolveratina.
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Vi auguro di cadere

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Vi auguro di fallire, di sbagliare, di aver torto, di cadere.
Ve lo auguro non perché sia bello, non perchè non abbia delle conseguenze morali, economiche, nella fiducia, in voi stessi o dagli altri.

Ve lo auguro, almeno una volta, perché insegna che ogni caduta, anche quella in cui sembra di aver toccato il fondo, è il modo per raccogliere qualcosa.
Ve lo auguro perché nel fondo dei nostri sbagli hanno messo la forza di guardare i giri strani che la vita ci propone e trovargli un senso. Hanno messo dentro la carezza di chi ci ama e la forza di ricominciare e di rialzarci.
Ve lo auguro perché, senza questi sbagli, non sareste voi.

Solo chi ha sbagliato e chi è caduto, in fondo, ha conosciuto la vera Vita.

Una manina che salutava

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Ero in macchina, ferma al semaforo. Rosso appena scattato.
Quante volte quei 30 secondi diventano l’occasione per prendere in mano lo smartphone e viaggiare in una dimensione altra?
Ultimamente però mi sforzo per approfittare di quegli istanti per osservare.

Ero nella corsia centrale e mi sono girata e guardata intorno.
A destra. Boh, non ricordo.
A sinistra c’era una macchina verde scuro. Lui, la moglie affianco. Dietro due bimbi. Una scena normalissima.
Io intanto chiusa dentro la seicentina cantando, per scacciare il grigiore che a volte si ruba le mie giornate. Come stavo per raddrizzare la testa sulla strada che avevo davanti, ecco che dal finestrino posteriore spunta una manina.
Due occhi grandi di una bella bimba mi guardano e la sua mano incomincia, prima lievemente e poi con più decisione, a sventolare: mi guarda, sorride e mi saluta.
Rimango sorpresa, stupita. Accenno anche io ad un sorriso, alzo la mano e la sventolo, per ricambiare il saluto.
La bimba si ritira sul sedile con quella tipica faccia dei bambini che, ‘colpiti’, si vergognano. Il fratellino le fa segno di smettere (chissà che non le abbia detto che non si salutano gli sconosciuti).
Dopo qualche secondo ecco di nuovo riemergere quella testolina. Mi guarda, ci guardiamo. Il mio sorriso si allarga sempre di più.
Scatta il verde, ingrano la prima e parto. Il padre al volante fa lo stesso. Pochi metri e siamo di nuovo fermi, anche se so che il semaforo scatterà da lì a qualche istante.
Il padre parte più veloce, questa volta, ma la bimba ha ancora il tempo di avvicinarsi al finestrino e salutarmi.
Ho pensato tutto il viaggio a quella bambina, a quella manina che mi salutava, chissà per quali oscuri meriti.
Ma i bambini sono così.

Non perdiamolo mai, quello stupore davanti alle carezze che arrivano nei modi e nei momenti più inaspettati.

Come quell’albero

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Oggi mentre studiavo, sbobinando quintali di ‘è chiaro questo concetto?’, guardavo fuori da quella finestra che dà sui tetti del centro città. Guardavo e osservavo il cielo, in questi giorni torinesi così volubile: uno squarcio di sole, poi di nuovo le nuvole, pioggia scrosciante e improvvisa, folate di vento che piegano le foglie del grande albero e che fanno muovere le antenne sulle case.
È come se il tempo in questi giorni seguisse il ritmo incessante delle mie paure, dei miei pensieri, di quel giornaliero stillicidio emotivo, in un certo senso, che mi accompagnerà, volente o nolente, fino a settembre. Con quella sottile ma quanto mai presente tentazione di leggere dietro parole, gesti o atteggiamenti una cosa o l’altra, ben sapendo che il Regista di questa vita sa meglio di noi come condurre le cose. Anche quando ci fanno male e soffrire, potenzialmente.

Mi sento come quell’albero, che gode di quella punta di Sole che esce come chi nel deserto accede ad un sorso d’acqua; e che vuole provare ad accettare l’impetuosità del vento che gli scompiglia le foglie, a volte senza pietà.
Sapendo che anche questo soffrire ha un senso che va al di là del mio capire.

(Photo credit di un mio contatto di Facebook)

Ramadan karìm!

ramadan

Per i fedeli islamici il Ramadan costituisce un periodo eccezionale dell’anno, un’insieme di pratiche religiose, che di per sé sono testimonianza della fede, che hanno un forte impatto sulla vita sociale e civica. La mattina, presto, prima del sorgere del sole, una sirena sveglia la città. Si comincia a cucinare per quella che sarà ben più di una colazione. E così alle 4 del mattino l’aria si riempi di aromi forti; si tratta di pasti sostanziosi, capaci di forza per affrontare un’intera giornata. Poi una seconda sirena: comincia il digiuno. Durante la giornata nessuno mangia o beve e anche chi non fosse tenuto a tale obbligo per religione o perché dispensato per l’età o la condizione di salute, evita di farlo. I luoghi di ristoro sono chiusi. E’ un rispetto dovuto e condiviso.C’è serietà in tutto questo, forse per qualcuno è solo esteriorità, ma rivela comunque il valore della fede. Poi, più si avvicina il calar del sole, più la vita si fa frenetica e si respira agitazione. Non si resiste più, si corre per arrivare a casa. La velocità dei taxi e autobus diventa spericolata, non si rispettano i semafori, non esistono regole. E forse l’ora più pericolosa per chi si trova in strada.
Un’ulteriore sirena, e come d’incanto si ferma. Si chiudono i negozi, le strade sono deserte. Un dattero, quell’agognato sorso d’acqua, i primi boccani e, “aperto” il digiuno, lentamente la vita riprende, le strade si rianimano, ma in modo pacato. Sono trenta giorni interminabili.
(“Oltre il velo nel cuore del Pakistan“- Daniela Bignone )

Buon Ramadam a tutti gli amici musulmani.

Ogni giorno

OmbrelloStamattina al bar un signore seduto mi guarda e mi dice: “Giovane.. tu sai cos’é l’amicizia?”

Sto per rispondere e mi interrompe: “Lo vedi quel signore laggiù? Quello é il mio migliore amico.. siamo nati nel ’39, siamo nati e cresciuti insieme, io gli ho fatto da testimone a nozze e lui l’ha fatto a me.. abbiamo comprato la terra da lavorare insieme e tutti i giorni venivamo in questo bar e prendevamo un bianchino e leggevamo le notizie.. Lui me le leggeva perchè io non so leggere. E io ascoltavo. Sempre insieme. Nel 78 abbiamo litigato, ce le siamo anche date e da quel giorno non ci siamo più parlati, neanche un ciao. Beh, ti diró, dal 78, nonostante tutto, ogni giorno veniamo qui, sempre alla stessa ora. Ogni giorno ci vediamo, non ci salutiamo e ci sediamo in due tavolini differenti. Entrambi prendiamo un bianchino, tutti i giorni lui prende il giornale e legge le notizie ad alta voce. La gente pensa che sia matto, ma lo fa per me. Dal 78. ”  Sonia Manno

La nebbia. E un tir.

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Ieri sera ho guidato da Busto Arsizio, dove sono stata a vedere una partita di pallavolo, fino a casa. Ho macinato un po’ di chilometri, al ritorno guidando attraverso grandi banchi di nebbia.

Mi è sembrata rappresentare, in ogni sua fase, la metafora di una vita. Quella vita che a volte è anche un po’ la mia.

Succede così. Che tutto sembra chiaro, limpido. E allora si va spediti.
Poi però incontri un banco di nebbia e allora devi rallentare, devi fare attenzione. Devi ‘cercare’. A volte neanche accendere gli abbaglianti o i fendinebbia migliora molto la situazione. Non vedi dove vai, ti chiedi che cosa ci sarà il prossimo metro.
Ma sono domande che restano senza risposte e non puoi che fare altro che continuare ad andare avanti, nella speranza che prima o poi si diradi un po’ quella nebbia che invece in certi punti sembra essere ancora più densa e pericolosa.

Poi succede che arriva un tir, con tante luci sul posteriore che sembra un albero di Natale. Ti si piazza davanti ed incosapevolmente ti fa strada. Ti guida. Illumina quel pezzo di asfalto davanti a te, non può certo far sparire la nebbia, ma apre dei varchi nell’incertezza e nella confusione.
Non sempre ti ‘tira la volata’ fino alla fine, ma ti da un aiuto indispensabile per quel pezzo di strada che condivide con te.
Alla fine la nebbia si dirada. A volte, non sempre.

Questa la storia che ho vissuto ieri sera alla guida di una auto. Questa la storia che vivo ogni giorno: da automobilista, ma magari inconsapevolmente anche da Tir.

Il quarto gancio

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Stavo riposando la chitarra nella sua custodia.
Gancio1 chiuso, gancio2 pure. Il terzo ha fatto un po’ più fatica ma poi è andato.
Ma il quarto no, non ne voleva sapere, perché avevo lasciato la tracolla attaccata e giustamente sporgeva un po’ dalla custodia.

Che fare? La tentazione data l’ora: lasciare tutto così, tanto con gli altri ganci chiusi non sarebbe successo nulla.
Ma poi no. Meglio chiuderla per bene. Ho riaperto il terzo gancio ma niente, non bastava.
Così sono dovuta tornare indietro e aprire tutti i ganci, ho sistemato la tracolla dentro alla custodia e ho richiuso il tutto.

Mi è sembrata la metafora di una vita: a volte quando qualcosa non funziona, anche nei rapporti con le persone, bisogna ‘riavviare’ il nastro, Ricominciare come se nulla fosse successo.