Al 2017 che arriva

happy new year 2017L’ultimo giorno dell’anno è solitamente quel momento in cui si fanno, giustamente, i bilanci di ciò che è stato e dei propositi per l’anno che si apre.

Ho smesso di fare i propositi per l’anno nuovo ormai da qualche anno. Non tanto perché poi non sono mai riuscita a rispettarli, quando perché non credo sia giusto imbrigliare in schemi precostituiti la vita, che si comporta sempre in modo così “casuale” ed imprevedibile da poter far mancare i presupposti per uno dei propositi che ci siamo imposti in meno di un secondo. E allora credo che sia inutile volersi obbligare a fare qualcosa.

Il 2016 è stato un anno di cambiamenti. Sono andata a vivere da sola, prima da sola sola e poi con due coinquiline. Mi sono catapultata nel mondo “adulto”, quello dove torni a casa e ti trovi la cena e il pranzo per il giorno dopo da fare, la lavatrice da far partire o da ritirare, la biancheria da stendere (e non parliamo di quella da stirare), due stanze in croce, che però chiedono pietà e di essere sistemate, non solo quando sai che verrà qualcuno. E poi, magari, anche la pretesa inconscia, finito tutto questo, di metterti ancora a lavorare. Ed invece, puntualmente, trovarmi a trascinarmi a letto lasciando in sospeso una tra queste cose, ogni volta a caso. Oltre che andare a fare la spesa, gestire e anticipare l’organizzazione dei “pranzi del giorno dopo” delle sere in cui non sei a casa a cena. Ricordarti cosa hai in frigo e stai facendo andare a male.

Ma sono sopravvissuta. E sopravvivo ad una scelta che rifarei tante altre volte, per quanto mi sta dando come persona e nella mia crescita, sia nella versione da sola che nella versione “in compagnia”, dove la contaminazione con le mie coinquiline siciliane mi ha permesso di imparare tante cose e di riscoprirne tante altre.

Poi il 2016 è stato anche tante altre cose, belle, meno belle, più brutte, più faticose, più umilianti.

Ho detto che non faccio propositi per il 2017 e davvero non ne faccio, ma forse una cosa vorrei impararla, in questo nuovo anno.

Imparare a dare tempo. Agli altri e soprattutto a me stessa.

Essere capace di accettarmi così come sono: imbranata, troppo, davvero troppo impulsiva, forse a volte con le persone anche un po’ troppo “invadente”, altre volte poco decisa. Vorrei imparare, pian piano, a dare tempo agli altri di fare i loro passi. E imparare, pian piano, a dare tempo a me stessa di aggiustare quelle cose che di me non mi vanno giù.

Questo sì, che sarà un bel 2017.

 

 

Cosa mi ha insegnato la vittoria dei Soul System a XFactor 10

Alvaro Soler con i Soul System

Quest’anno mi è capitato di seguire dall’inizio alla fine XFactor, il talent show di musica trasmesso da Sky, vinto qualche giorno fa dal gruppo veronese dei Soul System.

Ma non sono qui a scrivervi di questo, quanto piuttosto di una riflessione che ho fatto a margine.

Devo fare un po’ di storia, per chi non conosce il programma. XFactor si divide in due fasi: la prima è quella delle selezioni, che prevede più step, e poi c’è quella dei Live, che accompagna i concorrenti che hanno superato la prima fase fino alla finale. A selezionare e poi guidare nella gara i concorrenti, suddivisi in categorie, sono quattro giudici, quest’anno Manuel Agnelli, Arisa, Alvaro Soler e Fedez.

I Soul System hanno passato le prime fasi fino a quelli che vengono chiamati gli Home Visit dove il loro giudice di categoria, Alvaro Soler (si, quello di “mira Sofia” che abbiamo cantato fino allo svenimento per tutta l’estate) ha deciso di preferigli un altro gruppo. Che però, per motivi di regole del gioco del programma televisivo, ha preferito abbandonare – con relativa polemica – lo show, rendendo quindi possibile il ripescaggio del gruppo veronese.

Che a quel punto, forte dell’energia e dell’allegria che ha portato sul palco serata dopo serata, è arrivato non solo a fare breccia nei cuori degli italiani ma sopratutto in quelle del proprio giudice (a quanto pare, quando ci sono in mezzo le dinamiche televisive bisogna sempre prendere tutto con le pinze). Sì,  l’Alvarone, che inizialmente li aveva solo ripescati, ha incominciato ad affezionarsi – questo le telecamere ci hanno mostrato – a questi 5 pazzi scatenati finendo, durante la finale, per annunciare di volerli con lui nelle date italiane del suo tour.

Ecco, questa è la storia.

La riflessione che ho fatto a margine di questa storia è che vorrei essere capace di fare come Alvaro Soler: essere in grado di ricredermi nelle cose, di non lasciare che la prima impressione sia quella che categorizza e identifica una persona o una situazione. Essere capace, umilmente, a cambiare idea.

Ciao Paola

w0qm9xSono molto selettiva nell’affezionarmi alle persone (e sto imparando con fatica a farlo nella maniera corretta), quindi quando lo faccio è perché sono sicura che valga la pena. In questi giorni ci ha lasciato Paola, che ha incrociato il mio cammino qualche anno fa e con cui ci siamo “trovate” subito, e forse non solo per quello slancio comune nel cercare di vivere la nostra vita per un ideale grande. Una di quelle persone che passano nella vita degli altri, per più o meno tempo, e lasciano un segno. Così è stato per Paola con me. Ho saputo della sua “partenza” quasi per caso e ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa. Qualcosa che non è un saluto, perché so che il nostro dialogo potrà continuare, forse adesso ancora più di prima.

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Non farsi vincere dalla paura

Dal treno

Dal treno

Lunedì sono andata a vedere la partita dell’Italia al pub in pieno centro città. E ho avuto paura. Alternavo lo sguardo tra il maxi-schermo e verso la gente che avevo attorno.
Mi stavo svagando eppure non mi sentivo sicura. Ho guardato bene il locale e nella mia testa mi chiedevo se quella dove ero era una posizione sicura.

Non ho fatto una distinzione e classificazione in base al colore della pelle, alla barba o a strani copricapi nello squadrare ansiosamente chi entrava e chi potevo vedere, data la vastità del locale. So solo che avevo paura. Quando la partita è finita ho tirato un sospiro di sollievo uscendo dal pub, e non solo per la vittoria dell’Italia. Perché ero all’aperto, e nella mia testa l’allerta era passata da 1, quella massima, ad una più rassicurante. Come quando incominciano le piogge ed in certe città del nord si attivano i codici arancioni, gialli … uguale. Solo che in questo caso la previsione non c’è. Non ci può essere.

Poi è toccato è toccato ad Istanbul.
Puoi andare a prendere un aereo e bum, tutto finisce lì per te. Imprevedibile.

Così mentre guardo le foto che arrivano da laggiù mi ricordo di quella sensazione di insicurezza che mi si è appiccicata dentro, senza che io lo volessi. Senza esserne padrona.
Di quella sensazione che ha fatto il suo capolino lunedì, seduta con gli amici al pub. Di questo lento trascinarsi verso “la prossima volta”.
Quando le cose si impastricciano dentro è più difficile far finta che del sordo grido di certe sottili domande senza le risposte: “Perchè?”.

Chi mi conosce sa che ho scelto di vivere, nonostante tutto, per un sogno. Un mondo unito, un mondo fraterno. Sa che davanti a queste stragi non ho perso la capacità di guardare ad un’unica umanità. Non ho perso la capacità di pensare di esser, insieme a tanti, strumenti di azioni che vanno nel senso diametralmente opposto all’odio. Eppure proprio dentro di me si è impastricciata senza chiedere permesso quella paura, quell’irrazionale angoscia che non vorresti avere e che invece c’è, pronta ad emergere appena il tuo cervello, come un termometro, capta l’allerta.

Ma questo non fermerà il mio sogno, non fermerà il cercare di agire ogni giorno per questo scopo. La paura non l’avrà vinta.

(Foto di Michelle  Rocco)

Adesso mi chiede i soldi

elemosina

Si vicina un africano. Un altro. L’ennesimo. “Adesso mi chiede i soldi…” penso e sbuffo. “Speak English?” mi domanda invece. Dall’ alto della mia impostazione accademica gli rispondo “Yes, I do”. “You do” ribatte lui e non per sorpresa, ma come sottile sberleffo alla mia risposta troppo corretta. Banale dire che della grammatica non se ne fa nulla lui. Mi parla della Nigeria (“adesso mi chiede i soldi” penso), mi parla del lavoro che svolgeva là e della sua sistemazione qua (“me li chiederà adesso i soldi” ripenso); capisco la metà, ma una parola risalta su tutte le altre: “beg”. Mi racconta la sua difficoltà a chiedere l’elemosina, a mendicare. L’ avevo capito, i soldi non me li ha chiesti! Mi chiede un lavoro invece. Un lavoro! Mi sento impotente. E insieme al lavoro capisco che mi sta chiedendo di riconoscere la sua dignità, di guardarlo come “la persona che era in Africa”. E’ ora di andare, ci salutiamo, sento però che manca un tassello: “what’s your name?”, “and yours?”. E’ la domanda magica: io non l’ho più guardato come l’ “ennesimo”, lui ha riacquistato un pezzo di consapevolezza di esistere.

Da un post di Marta P. su Facebook.

Le Olimpiadi a Torino 10 anni dopo

Passion Lives Here, le Olimpiadi a Torino dieci anni dopo“Passion still lives here” (la passione vive ancora qui), parafrasando lo slogan che aveva accompagnato le Olimpiadi a Torino 2006. Alla scoperta di una città radicalmente cambiata dall’incontro con il mondo.
Vanno in scena in questi giorni i festeggiamenti per il decennale delle Olimpiadi a Torino, ospitate dal capoluogo piemontese nel febbraio 2006. Ricordare è una necessità nata già mentre si ammainavano i drappi rossi “Passion lives here” (riapparsi in città per l’occasione) che avevano ricoperto i grandi viali e ci si rendeva conto della metamorfosi che questo evento aveva portato, non solo in termini di servizi e strutture, ma nell’anima più profonda della città: i torinesi. Gli stessi che fino ad allora si sentivano infastiditi dalla notorietà fagocitante delle altre città italiane, senza però aver mai avuto la capacità di valorizzare la propria e che guardavano i turisti in città quella loro tipica diffidenza di chi si sentiva quasi disturbato dalla loro presenza.

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Che cosa ho imparato da un asino

Asino e buePrima di Natale mi sono trovata ad impersonare uno dei personaggi di un presepe vivente. Arruolata un po’ all’ultimo, per defezione di chi avrebbe dovuto interpretare quel ruolo, mi è toccato in sorte … il ruolo dell’asino – nonostante le orecchie che usavo fossero associate, dai gruppi di ragazzine che via via passavano dal mio “luogo”, nella maggior parte dei casi d’istinto ad un coniglio (e ciò sarebbe da approfondire, ma merita un discorso a parte).

Data la mia disponibilità all’ultimo momento, ero impreparata, ma l’attenta organizzazione della serata in un battibaleno mi ha spiegato come si sarebbe svolto il tutto: dovevo, dal mio punto di vista di asino, raccontare il mio ruolo e la mia storia nel presepe, e poi, come Daniela, raccontare … raccontare qualche mia piccola esperienza di vita che ciò che l’esperienza dell’asino mi faceva venire in mente.

Panico. Perché ci sono momenti nella vita in cui hai poco da raccontare. O hai voglia di raccontare solo a persone fidate. Ecco, era, è uno di quei momenti.

Ma quando si è in ballo, si deve ballare.

La storia, beh, penso la conosciate: racconta di questo povero asino che, dopo aver percorso le strade dell’oriente con sulla schiena una donna in piena gravidanza, si ritrova all’interno della scena forse oggi più famosa al mondo. Lo sfondo non è quello lussureggiante di un albergo, una locanda, perché lì per loro, quei due arrivati in città per il censimento, posto non c’era.

Raccontare la storia, anche con un velo di umorismo, non è stato difficile. Più complicato era dare ad un buon numero di adolescenti ragione delle esperienze e di ciò che l’asino mi ricordava. E dato che ho fatto lo sforzo quella sera, posso fare quello di metterle per scritto.

L’asino come colui che porta, sostiene.

Ho detto a quelle ragazze che avevo davanti che, come quell’asino 2000 anni, ancora oggi ci sono persone che sanno prendere sulla loro schiena i nostri pesi. Gli ho raccontato le esperienze che io ho fatto in questi anni, di tutti gli “asini” che ho incontrato sulla mia strada, che mi hanno caricato sulla loro schiena senza chiedere mai nulla in cambio. Così mi è tornata in mente quella persona a cui, salutandola dolorante per un forte mal di schiena, mi è venuto spontaneo, scherzosamente dire: “Forse questa è la conseguenza del fatto che ti diamo troppi dei nostri pesi da portare … e la tua schiena è forte, ma forse abbiamo esagerato!“. Ma me se sono tornate in mente anche tante altre, che portano i nostri pesi senza chiedere un grazie di ritorno e mai stufarsi di farlo, anche se a volte le loro schiene possono risultare un po’ ruvide. Che condividono le nostre difficoltà, le nostre preoccupazioni, senza chiedere conto delle proprie.

L’asino è colui che porta, sostiene. Ma anche è capace di chiedere.

C’è una cosa che non sono capace a fare: chiedere una mano. Vuoi perché hai paura di disturbare, vuoi perché ti sembra di aver approfittato così tanto che pensi che il credito sia giustamente decisamente finito … vuoi perché l’orgoglio ti spinge a dover dimostrare di farcela, da sola.
Ho raccontato a questo gruppo di ragazzine delle volte in cui sono riuscita a vincere gli scrupoli e a chiedere aiuto. Di quanto questo mi abbia fatto bene, perché mi ha reso consapevole che, per essere, ho bisogno degli altri. Questa è la bellezza della reciprocità: che se ci si dà un giro, si può diventare a propria volta “asini” per gli altri, e permettere agli altri di esserlo per noi.

L’asino è colui che, dallo sfondo, riscalda.

Sì, guardatelo l’asino nel presepio. Sta lì, attorno a quella famiglia che altro posto in città non aveva trovato che una fredda mangiatoia e prova, per quanto gli è possibile, a riscaldare. E lo fa lontano dai flash, lontano dalla gloria.
Ho raccontato al gruppo di ragazzine di tante persone che stanno ai margini, lavorano, faticano, si prendono cura degli altri … e per notarli non basta guardare, bisogna saper osservare. Anche loro sono “asini”, somari della gloria ma pieni di ciò che più conta.

Quando riscalda, nel presepio l’asino non lo fa da solo. Lo fa insieme al bue. Che voglia dirci qualcosa? Che voglia ricordarci a volerci bene, a sostenerci … insieme? Che certo, i gesti che io posso fare sono importanti, ma solo insieme trovano la loro efficacia?

Quante cose questo umile, nascosto, dimenticato asino cerca di ricordarmi. E io, sarò capace di impararle?

 

Un equilibrista nella nebbia

Funambolo-tra-le-stelleQui al Nord questa è la stagione della nebbia.

L’altra sera dovevo andare in città. E c’era una grande nebbia. Di quelle che sono talmente dense che le si potrebbe tagliare e servirne una fetta. Ma siccome gran parte della strada che dovevo percorrere era illuminata, mi sono fatta coraggio, ho preso la macchina e sono uscita.

C’era un punto sul cavalcavia però – ma già lo sapevo – in cui avrei dovuto fare attenzione, perché lì l’illuminazione non c’è. Duecento, trecento metri dove sembra di essere inghiottiti nel nulla: davanti solo un ammasso di nebbia e tutto intorno il nero di una notte profonda.
E tu lì, da solo. Che tieni la destra rallentando per la paura di incontrare ostacoli e di diventarlo a tua volta, se non dai adeguati segni della tua presenza.

Raccontava una metafora di vita.
Quei momenti dove tutto intorno ti sembra nebbia, dove tutto ti sembra buio: l’incapacità  di aspettare, pazientare, di capire. La frustrazione per quelli che, incuranti del pericolo ti frecciano accanto, che sembrano “averene” più di te.
E tu invece lì,  ad arrancare. In una strada che ti sembra di conoscere a menadito, dove pensi di conoscerne tutti i segreti. Dove sai che li, affianco a te, c’è un guardareil. C’è, ma tu non lo puoi vedere. Ti devi fidare. Come quegli amici silenziosi, che a te potrebbe venire il dubbio ti stiano lasciando volontariamente “a bagno”. Ti devi fidare che ci sono, anche nei loro silenzi, non necessariamente voluti, ma che fanno parte di quella congiunzione che la Vita ti prepara per crescere.

Sei lì. Nel silenzio di un’attesa, navigando a vista.
E poi, metro dopo metro, incominci laggiù ad intravedere le prime luci dei lampioni, che non riportano la visibilità totale, fino a quando non rendono più nitidi i contorni delle cose, anche quelle più familiari.

Vi auguro di farla,  l’esperienza di passare in quei metri avvolti dalla nebbia. Perchè è ancora diversa dall’esperienza della notte. Nella notte la luce illumina. Nella nebbia la luce ricompone contorni e forme, ma lascia alla nostra volontà e alla nostra forza l’onere di dargli una sostanza, un valore, una destinazione. Di dargli vita. Come un equilibrista della nebbia.

Le borse della vicina

Aiutare gli altriStavo tornando a casa, in macchina. Superato il semaforo, svoltato a destra ho imboccato la strada dove abito. Metto la seconda, metto la terza, accellero. E con la coda dell’occhio, già da lontano, avevo intravisto la sagoma della mia anziana vicina del piano di sopra (che ha già avuto modo di essere presente in queste pagine), che portava una grossa busta in una mano – con dentro una bellissima pianta dai fiori rosa, l’ho vista dopo – e nell’altra aveva un sacchetto di dimensioni più ridotte, ma pur sempre ingombrante. Immagino fosse appena scesa dal bus e si stesse avviando con tutto quell’armamentario in mano verso casa.

A passo lento, faceva fatica a camminare, si vedeva senza bisogno della coda dell’occhio.

Era tardi, avevo fame. Ho rallentato per evitare alcune buche e poi per fare la curva che mi avrebbe portato sul rettilineo di casa. Ma è bastata una frazione di secondo per frenare, fare una piccola retromarcia e raggiungerla. Ho abbassato il finestrino e le ho detto: “Le posso dare uno strappo? E’ vero che sono ormai pochi metri, ma vedo che ha delle borse pesanti ed ingombranti. E tanto andiamo dalla stessa parte!“.
Stupita, mi ha sorriso e ha accettato di buon grado il passaggio. Le ho preso la borsa e gliel’ho sistemata con cura sul sedile, mentre le si sedeva vicino a me.

Siamo arrivate al cancello, sono scesa ad aprirlo, siamo arrivate in cortile e siccome loro hanno il primo posto auto e noi l’ultimo mi sono permessa di farle una battuta: “Oggi le faccio fare un’esperienza diversa: venire fin quaggiù”. Se fosse stata una comunicazione digitale avrei potuto fare una faccina, così 😀

Siamo scese, ho recuperato la mia borsa, ho preso la sua e ci siamo avviate verso il portone. “E’ già la seconda volta che mi dà una mano, lei è proprio un angelo“. Mi sono schernita: “Ma si figuri, ho visto che era un po’ in difficoltà e mi è sembrato normale darle una mano“. “Si, ma sa, non è mica scontato. Dovremmo tutti aiutarci di più, essere presenti per gli altri … ed invece viviamo in un mondo indifferente. E sa di chi è la colpa? La colpa è della mia generazione“. Sono seguiti complimenti all’educazione che ho ricevuto – e che giro a mamma e papà.

Io sto vivendo un periodo della mia vita non semplice ma … sono entrata in casa con la consapevolezza che ho qualcosa da dare. Con la consapevolezza che tutti abbiamo qualcosa da dare. Con la consapevolezza che basta a volte poco: per cambiare un po’ in meglio il mondo e la propria giornata.