Adesso mi chiede i soldi

elemosina

Si vicina un africano. Un altro. L’ennesimo. “Adesso mi chiede i soldi…” penso e sbuffo. “Speak English?” mi domanda invece. Dall’ alto della mia impostazione accademica gli rispondo “Yes, I do”. “You do” ribatte lui e non per sorpresa, ma come sottile sberleffo alla mia risposta troppo corretta. Banale dire che della grammatica non se ne fa nulla lui. Mi parla della Nigeria (“adesso mi chiede i soldi” penso), mi parla del lavoro che svolgeva là e della sua sistemazione qua (“me li chiederà adesso i soldi” ripenso); capisco la metà, ma una parola risalta su tutte le altre: “beg”. Mi racconta la sua difficoltà a chiedere l’elemosina, a mendicare. L’ avevo capito, i soldi non me li ha chiesti! Mi chiede un lavoro invece. Un lavoro! Mi sento impotente. E insieme al lavoro capisco che mi sta chiedendo di riconoscere la sua dignità, di guardarlo come “la persona che era in Africa”. E’ ora di andare, ci salutiamo, sento però che manca un tassello: “what’s your name?”, “and yours?”. E’ la domanda magica: io non l’ho più guardato come l’ “ennesimo”, lui ha riacquistato un pezzo di consapevolezza di esistere.

Da un post di Marta P. su Facebook.

Che cosa ho imparato da un asino

Asino e buePrima di Natale mi sono trovata ad impersonare uno dei personaggi di un presepe vivente. Arruolata un po’ all’ultimo, per defezione di chi avrebbe dovuto interpretare quel ruolo, mi è toccato in sorte … il ruolo dell’asino – nonostante le orecchie che usavo fossero associate, dai gruppi di ragazzine che via via passavano dal mio “luogo”, nella maggior parte dei casi d’istinto ad un coniglio (e ciò sarebbe da approfondire, ma merita un discorso a parte).

Data la mia disponibilità all’ultimo momento, ero impreparata, ma l’attenta organizzazione della serata in un battibaleno mi ha spiegato come si sarebbe svolto il tutto: dovevo, dal mio punto di vista di asino, raccontare il mio ruolo e la mia storia nel presepe, e poi, come Daniela, raccontare … raccontare qualche mia piccola esperienza di vita che ciò che l’esperienza dell’asino mi faceva venire in mente.

Panico. Perché ci sono momenti nella vita in cui hai poco da raccontare. O hai voglia di raccontare solo a persone fidate. Ecco, era, è uno di quei momenti.

Ma quando si è in ballo, si deve ballare.

La storia, beh, penso la conosciate: racconta di questo povero asino che, dopo aver percorso le strade dell’oriente con sulla schiena una donna in piena gravidanza, si ritrova all’interno della scena forse oggi più famosa al mondo. Lo sfondo non è quello lussureggiante di un albergo, una locanda, perché lì per loro, quei due arrivati in città per il censimento, posto non c’era.

Raccontare la storia, anche con un velo di umorismo, non è stato difficile. Più complicato era dare ad un buon numero di adolescenti ragione delle esperienze e di ciò che l’asino mi ricordava. E dato che ho fatto lo sforzo quella sera, posso fare quello di metterle per scritto.

L’asino come colui che porta, sostiene.

Ho detto a quelle ragazze che avevo davanti che, come quell’asino 2000 anni, ancora oggi ci sono persone che sanno prendere sulla loro schiena i nostri pesi. Gli ho raccontato le esperienze che io ho fatto in questi anni, di tutti gli “asini” che ho incontrato sulla mia strada, che mi hanno caricato sulla loro schiena senza chiedere mai nulla in cambio. Così mi è tornata in mente quella persona a cui, salutandola dolorante per un forte mal di schiena, mi è venuto spontaneo, scherzosamente dire: “Forse questa è la conseguenza del fatto che ti diamo troppi dei nostri pesi da portare … e la tua schiena è forte, ma forse abbiamo esagerato!“. Ma me se sono tornate in mente anche tante altre, che portano i nostri pesi senza chiedere un grazie di ritorno e mai stufarsi di farlo, anche se a volte le loro schiene possono risultare un po’ ruvide. Che condividono le nostre difficoltà, le nostre preoccupazioni, senza chiedere conto delle proprie.

L’asino è colui che porta, sostiene. Ma anche è capace di chiedere.

C’è una cosa che non sono capace a fare: chiedere una mano. Vuoi perché hai paura di disturbare, vuoi perché ti sembra di aver approfittato così tanto che pensi che il credito sia giustamente decisamente finito … vuoi perché l’orgoglio ti spinge a dover dimostrare di farcela, da sola.
Ho raccontato a questo gruppo di ragazzine delle volte in cui sono riuscita a vincere gli scrupoli e a chiedere aiuto. Di quanto questo mi abbia fatto bene, perché mi ha reso consapevole che, per essere, ho bisogno degli altri. Questa è la bellezza della reciprocità: che se ci si dà un giro, si può diventare a propria volta “asini” per gli altri, e permettere agli altri di esserlo per noi.

L’asino è colui che, dallo sfondo, riscalda.

Sì, guardatelo l’asino nel presepio. Sta lì, attorno a quella famiglia che altro posto in città non aveva trovato che una fredda mangiatoia e prova, per quanto gli è possibile, a riscaldare. E lo fa lontano dai flash, lontano dalla gloria.
Ho raccontato al gruppo di ragazzine di tante persone che stanno ai margini, lavorano, faticano, si prendono cura degli altri … e per notarli non basta guardare, bisogna saper osservare. Anche loro sono “asini”, somari della gloria ma pieni di ciò che più conta.

Quando riscalda, nel presepio l’asino non lo fa da solo. Lo fa insieme al bue. Che voglia dirci qualcosa? Che voglia ricordarci a volerci bene, a sostenerci … insieme? Che certo, i gesti che io posso fare sono importanti, ma solo insieme trovano la loro efficacia?

Quante cose questo umile, nascosto, dimenticato asino cerca di ricordarmi. E io, sarò capace di impararle?

 

Una manina che salutava

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Ero in macchina, ferma al semaforo. Rosso appena scattato.
Quante volte quei 30 secondi diventano l’occasione per prendere in mano lo smartphone e viaggiare in una dimensione altra?
Ultimamente però mi sforzo per approfittare di quegli istanti per osservare.

Ero nella corsia centrale e mi sono girata e guardata intorno.
A destra. Boh, non ricordo.
A sinistra c’era una macchina verde scuro. Lui, la moglie affianco. Dietro due bimbi. Una scena normalissima.
Io intanto chiusa dentro la seicentina cantando, per scacciare il grigiore che a volte si ruba le mie giornate. Come stavo per raddrizzare la testa sulla strada che avevo davanti, ecco che dal finestrino posteriore spunta una manina.
Due occhi grandi di una bella bimba mi guardano e la sua mano incomincia, prima lievemente e poi con più decisione, a sventolare: mi guarda, sorride e mi saluta.
Rimango sorpresa, stupita. Accenno anche io ad un sorriso, alzo la mano e la sventolo, per ricambiare il saluto.
La bimba si ritira sul sedile con quella tipica faccia dei bambini che, ‘colpiti’, si vergognano. Il fratellino le fa segno di smettere (chissà che non le abbia detto che non si salutano gli sconosciuti).
Dopo qualche secondo ecco di nuovo riemergere quella testolina. Mi guarda, ci guardiamo. Il mio sorriso si allarga sempre di più.
Scatta il verde, ingrano la prima e parto. Il padre al volante fa lo stesso. Pochi metri e siamo di nuovo fermi, anche se so che il semaforo scatterà da lì a qualche istante.
Il padre parte più veloce, questa volta, ma la bimba ha ancora il tempo di avvicinarsi al finestrino e salutarmi.
Ho pensato tutto il viaggio a quella bambina, a quella manina che mi salutava, chissà per quali oscuri meriti.
Ma i bambini sono così.

Non perdiamolo mai, quello stupore davanti alle carezze che arrivano nei modi e nei momenti più inaspettati.

La signora Efisia

935737_647018518657380_231095322_nTorno a scrivere qui dopo tanto tempo.
Tante volte avrei voluto farlo ma poi sembrava che mancassero le parole. Non che le abbia ritrovate tutte, alcune giaciono in attesa di essere ripescate. Ma riprendere a scrivere qui è sempre un bell’esercizio, con me stessa.

Giovedì scorso sono andata in ospedale a trovare la nonna, che era lì da qualche giorno per una crisi d’asma.
Mi ha fatto impressione entrare nell’ospedale. Ho percorso tante volte i corridoi alla ricerca di quello giusto dove era la nonna e ho incrociato, guardando nelle stanze, tanti volti, per lo più di anziani.
Mi è venuto un groppo in gola, ma non capivo cosa lo muovesse.

Poi finalmente sono arrivata nella stanza giusta.
Nel letto accanto a quello della nonna c’era una signora con una flebo nel braccio che mi guardava.
Ad un certo punto mi ha detto: “Signorina, mi può fare un favore?”. “Certo!”.  “Mi può girare?”. “Ok”. L’ho girata e dopo mi ha chiesto di grattarle la schiena. Le ho grattato la schiena. Poi ha chiuso gli occhi, come per dormire.
Poi ha riaperto gli occhi e dopo un po’ la scena si è ripetuta.
Quando era ora di andarmene, mi sono voltata e le ho chiesto: “Come si chiama”? Lei mi ha risposto. “Efisia”. “Come scusi?”. “E-f-i-s-i-a”.
E’ una cosa che ho imparato ultimamente, quella di chiedere il nome delle persone che incontro. Mi capita al mercato, ai ragazzi che vendono gli occhiali davanti all’università… Crea un legame, chiedere il nome. Non è più solo un volto, è un universo che ti si staglia davanti e che tu per qualche minuto puoi accogliere dentro di te.
La signora Efisia. Prima di uscire dalla stanza mi ha fatto un grande sorriso.
Mi sono chiesta cosa vuol dire stare nel letto di un ospedale e avere bisogno che qualcuno ti gratti la schiena.
Sono uscita da quell’ospedale sotto la pioggia, senza ombrello. Con negli occhi il sorriso della signora Efisia che si è allargato davanti per ringraziarmi di quel piccolo servizio che le avevo fatto. Sentivo che il mio cuore per un po’ era diventato più largo e per qualche tempo aveva trovato spazio anche la signora Efisia.
Ecco, forse il groppo in gola entrando in quel luogo era la paura di non saper meritare una “vita piena”. Di non sapere avere un cuore largo. Un cuore capace di allargarsi. Che non condanna, che comprende, che accompagna.
Non ne sono capace, conosco i miei infiniti limiti con cui ho a che fare tutti i giorni. Ma almeno ci voglio, ci posso provare.

Ogni giorno

OmbrelloStamattina al bar un signore seduto mi guarda e mi dice: “Giovane.. tu sai cos’é l’amicizia?”

Sto per rispondere e mi interrompe: “Lo vedi quel signore laggiù? Quello é il mio migliore amico.. siamo nati nel ’39, siamo nati e cresciuti insieme, io gli ho fatto da testimone a nozze e lui l’ha fatto a me.. abbiamo comprato la terra da lavorare insieme e tutti i giorni venivamo in questo bar e prendevamo un bianchino e leggevamo le notizie.. Lui me le leggeva perchè io non so leggere. E io ascoltavo. Sempre insieme. Nel 78 abbiamo litigato, ce le siamo anche date e da quel giorno non ci siamo più parlati, neanche un ciao. Beh, ti diró, dal 78, nonostante tutto, ogni giorno veniamo qui, sempre alla stessa ora. Ogni giorno ci vediamo, non ci salutiamo e ci sediamo in due tavolini differenti. Entrambi prendiamo un bianchino, tutti i giorni lui prende il giornale e legge le notizie ad alta voce. La gente pensa che sia matto, ma lo fa per me. Dal 78. ”  Sonia Manno

Se tutti facessero così

Mano tesa Una storia vera, accaduta ieri a Roma. Nelle parole di chi l’ha vissuta in prima persona.
Mi piace, questo mondo!

Il mio autobus sta arrivando, ma io sono ancora dall’altra parte della strada. Attraverso di corsa. Ho bisogno di prendere QUELL’autobus. Devo arrivare puntuale. Raggiungo il bus alla fermata. Ha già chiuso le porte. “Busso” al conducente che mi guarda e parte. Un signora dalla sua 500 ha visto la scena. Si ferma e mi dice: “vieni su, lo raggiungiamo 4 fermate più avanti”. Accetto e salgo. È una donna non italiana, dall’aspetto molto “materno”. Nei 5 minuti insieme, condivide con me la sua macchina e anche i suoi dolori: un figlio “costretto” ad emigrare in Australia per trovare lavoro e una figlia che ha studiato tanto (due lauree), ma non trova lavoro. Vuole sapere di me. In breve le racconto l’anima di ciò sono oggi…e siamo già alla fermata del bus. Prima di scendere la ringrazio e le assicuro le mie preghiere per lei e per la sua famiglia e lei fa lo stesso. La ringrazio ancora e le dico che lei oggi è stata un angelo per me, e lei mi dice: SE TUTTI FACESSERO COSÌ IL MONDO SAREBBE PIÙ BELLO!
… e ora sto arrivando puntuale all’università, con le lacrime agli occhi, felice di aver incontrato l’amore più puro, quello che – anche nel dolore – ama per primo, ama tutti, costruisce una nuova umanità.

(di Andreas Virdis, dal suo profilo Facebook)

La nebbia. E un tir.

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Ieri sera ho guidato da Busto Arsizio, dove sono stata a vedere una partita di pallavolo, fino a casa. Ho macinato un po’ di chilometri, al ritorno guidando attraverso grandi banchi di nebbia.

Mi è sembrata rappresentare, in ogni sua fase, la metafora di una vita. Quella vita che a volte è anche un po’ la mia.

Succede così. Che tutto sembra chiaro, limpido. E allora si va spediti.
Poi però incontri un banco di nebbia e allora devi rallentare, devi fare attenzione. Devi ‘cercare’. A volte neanche accendere gli abbaglianti o i fendinebbia migliora molto la situazione. Non vedi dove vai, ti chiedi che cosa ci sarà il prossimo metro.
Ma sono domande che restano senza risposte e non puoi che fare altro che continuare ad andare avanti, nella speranza che prima o poi si diradi un po’ quella nebbia che invece in certi punti sembra essere ancora più densa e pericolosa.

Poi succede che arriva un tir, con tante luci sul posteriore che sembra un albero di Natale. Ti si piazza davanti ed incosapevolmente ti fa strada. Ti guida. Illumina quel pezzo di asfalto davanti a te, non può certo far sparire la nebbia, ma apre dei varchi nell’incertezza e nella confusione.
Non sempre ti ‘tira la volata’ fino alla fine, ma ti da un aiuto indispensabile per quel pezzo di strada che condivide con te.
Alla fine la nebbia si dirada. A volte, non sempre.

Questa la storia che ho vissuto ieri sera alla guida di una auto. Questa la storia che vivo ogni giorno: da automobilista, ma magari inconsapevolmente anche da Tir.

Un pezzo di pizza

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Vi ricordate la mia amica D.?
Oggi ne ha combinata un’altra.

Quando riesce alla mattina va a salutare un ‘amico’ in pieno centro, a Torino.
Stamattina, mentre usciva, al cancello c’era un signore che mendicava.
Lui stava lì, accovacciato e quasi nascosto da una pianta, chiedendo una moneta. Ma è sempre una storia molto complicata il rapporto con chi mendica. E spesso D. si trova in queste situazioni con un grosso peso nel cuore.
D. gli ha fatto un sorriso e gli augurato buona giornata. Già superare il muro dell’indifferenza è un buon punto di partenza.

Ma poi un pensiero: oggi per pranzo da casa si era presa della pizza. Perché non condividerne un pezzo con lui?
D. non ha voluto nemmeno ascoltarla, quella vicina sottile che provava a dissuaderla.
Ha aperto lo zaino e ha preso, dei due che aveva con sè, il più grosso dei pezzi di pizza.
E gliel’ha porto.
Ha ricevuto in cambio un sorriso e un grazie commosso di quella mano tesa che aspettava da lei una moneta.

Date e vi sarà dato

SpigheUn’amica, che chiameremo D., mi ha permesso di raccontare la sua esperienza.

Lei è una 25enne, per adesso informatica, un po’ fissata con una vita che si possa equilibrare tra i piedi ben piantati a terra con le cose ‘dai tetti in sù‘.
Direi che potrebbe quasi quasi esser la mia, di descrizione.

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Il regalo di Fal

Venditore in spiaggiaFal è un ragazzone di 27 anni del Senegal, dove vive la sua famiglia e dove torna una volta finita la stagione qui in Italia.

Tutti i giorni sulla spiaggia vende borse e borsellini ai bagnanti. E ogni notte dorme lì, in una piccola tenda arancione.

In mezzo al brulicare di bancarelle lo riconosci dal suo cappello giamaicano che usa per ripararsi dal sole.

Il mio papà in questi giorni ha fatto amicizia con lui e l’altra sera, quando abbiamo mangiato in spiaggia, è andato a dargli il suo panino.

È incredibile come a volte bastino poche parole, lo sforzo di capirsi nonostante si parlino lingue diverse, per creare un rapporto. Così finito l’ultimissimo bagno e l’ultimissimo sole, prima di partire siamo andati a salutarlo.
Papà non c’era, era a preparare le ultime cose e così gli abbiamo portato i suoi saluti.
Fel ci ha fermato, ha preso un sacchetto. Ha preso uno dei bei borsellini che vendeva, l’ha imbustato e ci ha detto: ‘Datelo al papà e ditegli: questo è il regalo di Fal’.

Sono rimasta di sasso, perché papà proprio in questi giorni aveva cercato nel mercatino sulla spiaggia un borsellino per sostituire il suo. Non so se lui lo sapesse, ma ho provato a dirgli che non era proprio il caso. Ma mi ha fatto capire che non potevo rifiutare il suo regalo.

Così l’ho ringraziato, ci siamo dati un cinque e noi abbiamo preso la strada del ritorno.

Su quei lunghi metri di spiaggia che separavano dal parcheggio dove ci aspettavano i genitori, non ho potuto far a meno di commuovermi, pensando al dono che portavo tra le mani, alla gratuità di quel gesto. Quel borsellino è il ‘pane’ di Fal e della sua famiglia. E lui, come ‘ringraziamento’ al papà che si era fermato a chiacchierare cn lui, glielo stava regalando.

Ho consegnato il sacchetto al papà, che ha provato a riportarlo a Fal.

Non so come sia andata, so solo che quel borsellino è stato in viaggio con noi verso casa.

A me importa raccontare del vero “regalo” di Fal, il suo grande cuore. Da cui tutti, io compresa e per prima, abbiamo molto da imparare.