La signora delle calze del mercato

Mercato

Avevo bisogno di un paio di collant. Arrivo al mercato alle 9,30, che è già un buon orario. Lo faccio tutto, avanti e indietro, ma niente, nessun banco vende collant. Eppure so che dovrebbe venderle il banco di una signora molto anziana, un po’ ricurva, è uno dei banchi fissi di questo mercato. L’ho vista a volte arrivare tirando con estrema lentezza il carrellino con tutta la sua merce sopra e mi ha fatto tanta tenerezza. Guardo e riguardo ma proprio oggi non la vedo. Poi mi giro e con la coda dell’occhio la vedo arrivare. Solo che ci vorrà un po’ prima che il banco sia montato. Allora vado a prendermi un posto nella biblioteca che sta lì accanto, con l’idea di ripassare a comprare le calze più tardi, nella pausa pranzo.

Passando davanti al suo banco, la prima volta, avevo visto un cartello scritto a mano e lasciato lì, sopra la sua merce:

Fatevi i fatti vostri, vivrete meglio.

La prima volta questa frase mi è suonata sprezzante. Il mercato è quel luogo delle chiacchiere, dell’incontro con la gente e sì, dei fatti degli altri: quelli che parlano tra di loro aspettando il loro turno, dei mercantali che si parlano da un banco all’altro, o anche della gente che percorre quello stretto corridoio con il cellulare all’orecchio intento in una conversazione. Questo mi piace del mercato: l’umanità.

Forse per questo motivo quel cartello mi ha spiazzato e, involontariamente, mi ha sempre fatto guardare quella signora con un occhio di chi la sa più lunga, anche se tante volte, passando davanti a quel cartello, mi è venuto spontaneo chiedermi che cosa, nella vita, l’avesse spinta a pensare quello. Così ho però finito per evitare accuratamente di dover comprare quel banco. Fino ad oggi, quando se volevo comprare i miei collant lì non avevo altra soluzione. E’ ormai ora di pranzo e, tirato fuori il mio panino, mi metto come al solito a girellare tra le bancarelle. Mi avvicino al suo banco e incomincio a rovistare nelle pile di buste di collant alla ricerca di quello che faceva per me. Volevo sbrigarmela in fretta: scegli, paga e prendi. Poi eccomi di fronte al solito dilemma: taglia M o taglia L? Ho girato la confezione che avevo in mano per guardare il bugiardino. Uhm … sono abbastanza border-line.
Nel mentre che il mio cervello si arrovellava alla ricerca di una risposta, la signora, sempre ricurva, era intenta ad incominciare a radunare le cose perché da lì a poco avrebbe, immagino, sgomberato il campo.

Ha alzato gli occhi, mi ha guardata e mi ha chiesto: “Signorina, le serve aiuto?”. Ecco, quattro semplici parole che hanno rotto la mia diffidenza. Le ho fatto un sorriso e le ho detto: “Sono un po’ indecisa sulla taglia, cosa le sembra, visto che sono piuttosto alta, che sia meglio la L”?. “Oh guardi, secondo me proprio sì.  Sa, rischia che magari si piega e … patatrac!”. L’ho ringraziata per il consiglio, ma ormai la cosa più importante era fatta: ero riuscita ad andare oltre la mia diffidenza. Così abbiamo attaccato un discorso sul colore dei collant, mi ha chiesto per cosa mi servivano, io le ho detto che l’avrei usate con un vestito di colore chiaro e che quindi forse le avrei prese il più possibili chiare anche loro, mi ha spiegato la differenza dei denari. Da donna conosco molto bene ovviamente, la differenza dei denari ma le ho lasciato credere che io avessi bisogno di quella spiegazione.

Ne avevo bisogno, come andidoto ai miei pregiudizi. Per provare un po’ a distruggerli. Come quelli che posso avere nei confronti anche di altre persone.

Rallentare il passo

la-poesia-dei-piedi-L-ChucqqIeri, presa la chitarra, stavo andando verso il punto di ritrovo quando ho visto arrivare Elisabetta, che probabilmente era appena uscita dalla Metro. Mi sono fermata per aspettarla per fare quel pezzo di strada insieme, visto che andavamo nello stesso posto.
Betta è un’amica speciale, per tanti motivi, ma anche perchè combatte ogni giorno con un problema fisico che non le permette di camminare con facilità.
Ci siamo incamminate verso il punto dove avremmo trovato il resto della banda.
Mentre facevo la strada con lei, cercando per una volta di dimenticarmi il mio passo sostenuto da universitaria, mi è tornata in mente una frase che fa capolino spesso nei miei pensieri, che mi piace tanto e che tutte le volte che la leggo – e sono tante – richiede in me una conversione:

(…) rallentare il passo per camminare insieme convinta che ero io ad averne bisogno (…)
(da “Oltre il velo nel cuore del Pakistan” di D.Bignone)

Una frase che ho sempre trovato illuminante, e che forse a volte però ho cercato di far mia solo per “inerzia”, perché fidandomi di chi l’aveva scritta, sapevo essere vera. Ma un conto è cercare di  farla propria, un altro è poi viverla.

Ecco. Ieri mentre camminavo con Betta, pur immersa nella mia stanchezza e con il cervello un poco annebbiato, forse per la prima volta “ho capito” profondamente il senso di questa frase perché era quello che stavo vivendo.

Si. Perché anche ieri rallentare il mio passo era una cosa che veniva prima di tutto in mio vantaggio e di cui io avevo bisogno: per poter guardare Betta negli occhi mentre parlava, per poter non perdere un filo delle cose che mi diceva, per poter allungare la mano ci fosse stato bisogno di un aiuto per circumnavigare un ostacolo. Se avessi fatto solo un passo in più, se non avessi rallentato, quante cose che mi sarei persa!

Mi sono gustata questa (ri)scoperta, nella ricaduta pratica di quel momento ma sopratutto pensando a quel camminare più grande che è la Vita. Mi sono venuti in mente tanti momenti e tante situazione dove invece che aspettare ho accellerato il passo. Mi è venuta la paura di non essere sempre capace di ripetere questo “rallentare” con le persone che la vita mi mette accanto ogni giorno o anche solo per una volta.

Ma mi è venuta anche una grande voglia di provarci. Di cadere quando non ne sarò capace. E di riprovarci ancora.
Convinta, per davvero, che sono io, ad averne bisogno.

 

 

Un caffè al bar

preparare-buon-caffe-barI migliori amici.
Quelli con cui puoi prendere al bar un caffè e smezzare una brioches. Senza dire una parola, in un dialogo fatto di silenzio e sguardi che raccontano più di quanto farebbero le parole, in un rispetto immenso per le guerre interiori che ognuno sta facendo e di cui l’altro sa tutto, senza bisogno che tu glielo dica o glielo debba raccontare.
E sapere che lì c’è tutto.
E che anche quella può essere la migliore conversazione.
‘Visi comunicanti’.

Essere pronti a perderlo

10172731_10201951979263494_3633953744748011937_nMomenti preziosi. Momenti forti. A volte solo il prospettarsi di certe possibilità di ‘tagli’ ti ricordano la bellezza e la ricchezza di certi rapporti, quanto non siano e non possano essere scontati, anche se pensi già di saperlo.
E la questione di sapersi creare i giusti equilibri, non scappare per paura di soffrire ma anzi, gustare e sentire ancora più prezioso quello che c’è.
Con la consapevolezza, e non solo, la certezza, che per “possedere” qualcosa per davvero bisogna essere pronti a perderlo.

“Non appoggiarti all’albero: deve seccare. Non appoggiarti al muro: deve crollare.”

Non rimpiangere, ricomincia!

Rimpiangere vuol dire piangere due volte. Preferisco ricominciare, sempre e nonostante tutto. (I.L.)

Qualche giorno fa parlavo, davanti ad una pizza, con una persona saggia. Le raccontavo alcune difficoltà, alcuni rimpianti che ogni tanto vengono su cose passate e lei mi ha detto una frase che aveva sentito tanti anni fa: ‘non devi guardare le cose di ieri con gli occhi di oggi’.
Mi sono convinta che ha ragione.
Mi sono convinta che la nostra vita è piena di giri strani, ma solo dopo averli percorsi ci si chiarisce il senso.
Ma serve pazienza e fiducia. E serve saper ricominciare, sempre.

Pattinatori o … pubblico? – ¿Patinadores o público?

CadutaStavamo passeggiando dopo pranzo con la mia sorellina. Mi ha raccontato una cosa che l’ha colpita guardando in questi giorni le gare di pattinaggio alle Olimpiadi. Mi diceva: “Lo sport è davvero un maestro di vita.
Vedi, tu stai facendo la tua gara e ad un certo punto cadi. Ma non puoi stare lì per terra. Ti devi rialzare subito e continuare, nonostante l’errore, nonostante hai ormai compresso la tua gara. Ma soprattutto devi continuare a sorridere, come se nulla fosse successo anche se dentro di te sei arrabbiato, deluso”.

Ha ragione. Quante volte succede anche nella nostra vita? Ho provato ad immaginare la scena e mi è venuta in rilievo un’altra cosa. Che a volte il pubblico, quando intuisce la difficoltà, incomincia ad applaudire per incoraggiare il pattinatore nel tuo rialzarsi.

Ecco. Nella vita ci troviamo spesso nella parte dei pattinatori. Ma possiamo anche trovarci nei panni del pubblico assistendo alle cadute degli altri. Ed è lì che possiamo fare la nostra scelta: essere spettatori, e magari ancora infierire. Oppure diventare parte attiva del ricominciare degli altri incoraggiando, sostenendo e accompagnando, chi è caduto, nel suo rialzarsi.

La mia amica Melisa mi ha mandato la traduzione di questo articolo anche in spagnolo 🙂

Estábamos caminando después de almuerzo con mi hermanita y me contó algo que la impresionó mucho mirando en estos días las competencias de patinaje en las Olimpíadas.
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Esami

LibriPeriodo di esami. Per questa sessione finito.

Ieri, nel panico pre-esami ad un certo punto è riaffiorato un po’ di scoraggiamento, quella lieve e sottile sensazione di non farcela, che fosse più semplice gettare la spugna. Un esame tosto, per un’informatica come me che si trovava a dover padroneggiare e contenere il mondo della filosofia, anche se in ambito comunicativo. Soprattutto quella impressione, quello scrupolo di non essere abbastanza preparata e non essere sicura di aver davvero fatto fino in fondo la mia parte.

Ma una persona saggia mi ha ricordato una cosa. Che sì, quando affrontiamo un esame ci piacerebbe sapere la domanda in anticipo per poterci preparare per bene. Eppure, eppure ci aspetta un esame di cu conosciamo argomento e domande con molto anticipo ma … rischiamo seriamente di non essere preparati mai abbastanza lo stesso.

Una preghiera a Chiara Luce

Chiara LuceIl tuo sorriso, cara Chiara, parla per te. Allora come oggi, dopo tanti anni.

Ti chiedo questo, se puoi: insegnami quella tua normalità che ti faceva essere il cuore sempre in Cielo e con i piedi ben radicati su questa terra.

Quella semplicità che sapeva ascoltare, confidare, mettersi in gioco. Non accontentarsi. Che faceva sentire ciascuno speciale, perché speciale lo era già per Qualcuno.

Ti immagino come in un’onda: quell’onda che una volta approdata alla riva, ritorna indietro incontrando e intrecciandosi alle onde che la rincorrevano.

Ecco, tu l’onda già arrivata. Noi le onde che rincorrono.

Sorreggici quelle volte che ci perdiamo, ci intestardiamo quando i giri sembrano non seguire il percorso tracciato da noi. Che ci sfiduciamo di fronte alle difficoltà, alle sfide che la vita ci mette davanti. Che non sappiamo fare spazio a chi ci sta davanti come fosse la cosa più importante che abbiamo da fare. Che non sempre ricordiamo che abbiamogià, tutto.

“Corri corri dimmi che non c’è, nulla da temere”.

Lo cantiamo tante volte, ma poi a volte non è facile crederlo.
Fa che questa sia la nostra normalità. Fa che un po’ possiamo essere come te.