Sono molto selettiva nell’affezionarmi alle persone (e sto imparando con fatica a farlo nella maniera corretta), quindi quando lo faccio è perché sono sicura che valga la pena. In questi giorni ci ha lasciato Paola, che ha incrociato il mio cammino qualche anno fa e con cui ci siamo “trovate” subito, e forse non solo per quello slancio comune nel cercare di vivere la nostra vita per un ideale grande. Una di quelle persone che passano nella vita degli altri, per più o meno tempo, e lasciano un segno. Così è stato per Paola con me. Ho saputo della sua “partenza” quasi per caso e ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa. Qualcosa che non è un saluto, perché so che il nostro dialogo potrà continuare, forse adesso ancora più di prima.
My Life
Che cosa ho imparato da un asino
Prima di Natale mi sono trovata ad impersonare uno dei personaggi di un presepe vivente. Arruolata un po’ all’ultimo, per defezione di chi avrebbe dovuto interpretare quel ruolo, mi è toccato in sorte … il ruolo dell’asino – nonostante le orecchie che usavo fossero associate, dai gruppi di ragazzine che via via passavano dal mio “luogo”, nella maggior parte dei casi d’istinto ad un coniglio (e ciò sarebbe da approfondire, ma merita un discorso a parte).
Data la mia disponibilità all’ultimo momento, ero impreparata, ma l’attenta organizzazione della serata in un battibaleno mi ha spiegato come si sarebbe svolto il tutto: dovevo, dal mio punto di vista di asino, raccontare il mio ruolo e la mia storia nel presepe, e poi, come Daniela, raccontare … raccontare qualche mia piccola esperienza di vita che ciò che l’esperienza dell’asino mi faceva venire in mente.
Panico. Perché ci sono momenti nella vita in cui hai poco da raccontare. O hai voglia di raccontare solo a persone fidate. Ecco, era, è uno di quei momenti.
Ma quando si è in ballo, si deve ballare.
La storia, beh, penso la conosciate: racconta di questo povero asino che, dopo aver percorso le strade dell’oriente con sulla schiena una donna in piena gravidanza, si ritrova all’interno della scena forse oggi più famosa al mondo. Lo sfondo non è quello lussureggiante di un albergo, una locanda, perché lì per loro, quei due arrivati in città per il censimento, posto non c’era.
Raccontare la storia, anche con un velo di umorismo, non è stato difficile. Più complicato era dare ad un buon numero di adolescenti ragione delle esperienze e di ciò che l’asino mi ricordava. E dato che ho fatto lo sforzo quella sera, posso fare quello di metterle per scritto.
L’asino come colui che porta, sostiene.
Ho detto a quelle ragazze che avevo davanti che, come quell’asino 2000 anni, ancora oggi ci sono persone che sanno prendere sulla loro schiena i nostri pesi. Gli ho raccontato le esperienze che io ho fatto in questi anni, di tutti gli “asini” che ho incontrato sulla mia strada, che mi hanno caricato sulla loro schiena senza chiedere mai nulla in cambio. Così mi è tornata in mente quella persona a cui, salutandola dolorante per un forte mal di schiena, mi è venuto spontaneo, scherzosamente dire: “Forse questa è la conseguenza del fatto che ti diamo troppi dei nostri pesi da portare … e la tua schiena è forte, ma forse abbiamo esagerato!“. Ma me se sono tornate in mente anche tante altre, che portano i nostri pesi senza chiedere un grazie di ritorno e mai stufarsi di farlo, anche se a volte le loro schiene possono risultare un po’ ruvide. Che condividono le nostre difficoltà, le nostre preoccupazioni, senza chiedere conto delle proprie.
L’asino è colui che porta, sostiene. Ma anche è capace di chiedere.
C’è una cosa che non sono capace a fare: chiedere una mano. Vuoi perché hai paura di disturbare, vuoi perché ti sembra di aver approfittato così tanto che pensi che il credito sia giustamente decisamente finito … vuoi perché l’orgoglio ti spinge a dover dimostrare di farcela, da sola.
Ho raccontato a questo gruppo di ragazzine delle volte in cui sono riuscita a vincere gli scrupoli e a chiedere aiuto. Di quanto questo mi abbia fatto bene, perché mi ha reso consapevole che, per essere, ho bisogno degli altri. Questa è la bellezza della reciprocità: che se ci si dà un giro, si può diventare a propria volta “asini” per gli altri, e permettere agli altri di esserlo per noi.
L’asino è colui che, dallo sfondo, riscalda.
Sì, guardatelo l’asino nel presepio. Sta lì, attorno a quella famiglia che altro posto in città non aveva trovato che una fredda mangiatoia e prova, per quanto gli è possibile, a riscaldare. E lo fa lontano dai flash, lontano dalla gloria.
Ho raccontato al gruppo di ragazzine di tante persone che stanno ai margini, lavorano, faticano, si prendono cura degli altri … e per notarli non basta guardare, bisogna saper osservare. Anche loro sono “asini”, somari della gloria ma pieni di ciò che più conta.
Quando riscalda, nel presepio l’asino non lo fa da solo. Lo fa insieme al bue. Che voglia dirci qualcosa? Che voglia ricordarci a volerci bene, a sostenerci … insieme? Che certo, i gesti che io posso fare sono importanti, ma solo insieme trovano la loro efficacia?
Quante cose questo umile, nascosto, dimenticato asino cerca di ricordarmi. E io, sarò capace di impararle?
Come fossi un modellino
Stamattina sul pullman mi è caduto distrattamente l’occhio su una ragazza che seduta vicino all’obliteratrice, la mia meta di quel momento, armeggiava con un modellino di plastica. Un passatempo davvero insolito, considerando che la posa comune ormai è quella di due occhi chinati sul proprio smartphone – e io non faccio differenza, in questo, approfittando di questi tempi vuoti per leggere un po’ di cose utili per il mio aggiornamento professionale day-by-day.
Mi ha incuriosito. Ho immaginato fosse una studente di Architettura e quel plastico fosse il frutto di un duro lavoro fatto non solo di ore ed ore di fatica, ma magari anche di qualche ora in bianco.
Ma la mia attenzione era però tutta per quel modellino e quel pezzo di carta vetrata dal fondo rosso che utilizzava per raffinare le curve del modellino bianco che teneva in mano, cercando di prevenire gli scossoni e gli strappi delle frenate del bus.
Mi ha colpito la delicatezza con cui curava alcune curve e allo stesso tempo la ruvidezza con cui smussava alcuni angoli, probabilmente non venuti in prima battuta come ci si sarebbe aspettati. Uno sguardo più attento poi rivelava quà e là alcune imperfezioni, qualche pezzo di scotch. Eppure lei continuava, imperterrita, a curare e raffinare quel suo lavoro.
Ho immaginato di essere io quel modellino. Con i miei angoli oscuri, i pezzi di scotch che tengono insieme le mie mancanze, le mancanze di coraggio … tutto quello che di sbagliato posso vedere nella mia vita. Ma anche con quei pezzi curati, definiti, rifiniti.
E ho immaginato qualcuno, non necessariamente sempre e solo in una dimensione trascendente, che si prende di cura del suo modellino: me. Con forza e con ruvidezza, a volte. Con un’attenzione delicata altre, per smussare angoli ancora troppo ruvidi. E lo fa anche e nonostante lo scotch. E tutto ciò che esso copre o cerca di nascondere.
La signora delle calze del mercato
Avevo bisogno di un paio di collant. Arrivo al mercato alle 9,30, che è già un buon orario. Lo faccio tutto, avanti e indietro, ma niente, nessun banco vende collant. Eppure so che dovrebbe venderle il banco di una signora molto anziana, un po’ ricurva, è uno dei banchi fissi di questo mercato. L’ho vista a volte arrivare tirando con estrema lentezza il carrellino con tutta la sua merce sopra e mi ha fatto tanta tenerezza. Guardo e riguardo ma proprio oggi non la vedo. Poi mi giro e con la coda dell’occhio la vedo arrivare. Solo che ci vorrà un po’ prima che il banco sia montato. Allora vado a prendermi un posto nella biblioteca che sta lì accanto, con l’idea di ripassare a comprare le calze più tardi, nella pausa pranzo.
Passando davanti al suo banco, la prima volta, avevo visto un cartello scritto a mano e lasciato lì, sopra la sua merce:
Fatevi i fatti vostri, vivrete meglio.
La prima volta questa frase mi è suonata sprezzante. Il mercato è quel luogo delle chiacchiere, dell’incontro con la gente e sì, dei fatti degli altri: quelli che parlano tra di loro aspettando il loro turno, dei mercantali che si parlano da un banco all’altro, o anche della gente che percorre quello stretto corridoio con il cellulare all’orecchio intento in una conversazione. Questo mi piace del mercato: l’umanità.
Forse per questo motivo quel cartello mi ha spiazzato e, involontariamente, mi ha sempre fatto guardare quella signora con un occhio di chi la sa più lunga, anche se tante volte, passando davanti a quel cartello, mi è venuto spontaneo chiedermi che cosa, nella vita, l’avesse spinta a pensare quello. Così ho però finito per evitare accuratamente di dover comprare quel banco. Fino ad oggi, quando se volevo comprare i miei collant lì non avevo altra soluzione. E’ ormai ora di pranzo e, tirato fuori il mio panino, mi metto come al solito a girellare tra le bancarelle. Mi avvicino al suo banco e incomincio a rovistare nelle pile di buste di collant alla ricerca di quello che faceva per me. Volevo sbrigarmela in fretta: scegli, paga e prendi. Poi eccomi di fronte al solito dilemma: taglia M o taglia L? Ho girato la confezione che avevo in mano per guardare il bugiardino. Uhm … sono abbastanza border-line.
Nel mentre che il mio cervello si arrovellava alla ricerca di una risposta, la signora, sempre ricurva, era intenta ad incominciare a radunare le cose perché da lì a poco avrebbe, immagino, sgomberato il campo.
Ha alzato gli occhi, mi ha guardata e mi ha chiesto: “Signorina, le serve aiuto?”. Ecco, quattro semplici parole che hanno rotto la mia diffidenza. Le ho fatto un sorriso e le ho detto: “Sono un po’ indecisa sulla taglia, cosa le sembra, visto che sono piuttosto alta, che sia meglio la L”?. “Oh guardi, secondo me proprio sì. Sa, rischia che magari si piega e … patatrac!”. L’ho ringraziata per il consiglio, ma ormai la cosa più importante era fatta: ero riuscita ad andare oltre la mia diffidenza. Così abbiamo attaccato un discorso sul colore dei collant, mi ha chiesto per cosa mi servivano, io le ho detto che l’avrei usate con un vestito di colore chiaro e che quindi forse le avrei prese il più possibili chiare anche loro, mi ha spiegato la differenza dei denari. Da donna conosco molto bene ovviamente, la differenza dei denari ma le ho lasciato credere che io avessi bisogno di quella spiegazione.
Ne avevo bisogno, come andidoto ai miei pregiudizi. Per provare un po’ a distruggerli. Come quelli che posso avere nei confronti anche di altre persone.
Cosa ho imparato dal Solitario
Mi è capitato, ultimamente, di dare una sistematina al computer di un’amica. Tra le varie cose, siccome su Windows 8 i giochi sono a pagamento, le ho installato una suite alternativa e gratuita. E così mi sono ritrovata davanti al Solitario, che non utilizzavo più da qualche anno.
Essendo un periodo un po’ di stress vari, ho pensato che era l’occasione per ridargli una spolveratina.
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Vi auguro di cadere
Vi auguro di fallire, di sbagliare, di aver torto, di cadere.
Ve lo auguro non perché sia bello, non perchè non abbia delle conseguenze morali, economiche, nella fiducia, in voi stessi o dagli altri.
Ve lo auguro, almeno una volta, perché insegna che ogni caduta, anche quella in cui sembra di aver toccato il fondo, è il modo per raccogliere qualcosa.
Ve lo auguro perché nel fondo dei nostri sbagli hanno messo la forza di guardare i giri strani che la vita ci propone e trovargli un senso. Hanno messo dentro la carezza di chi ci ama e la forza di ricominciare e di rialzarci.
Ve lo auguro perché, senza questi sbagli, non sareste voi.
Solo chi ha sbagliato e chi è caduto, in fondo, ha conosciuto la vera Vita.
Un eterno, ricominciare
No, il mio non è stato un anno meraviglioso, come leggo sulle bacheche di Facebook di tanti miei amici.
Siamo più deboli ogni giorno ed incapaci di vedere pacifisti non per scelta
e impauriti dal dolore,
nemici di noi stessi chiusi in casa ad aspettare
che fuori cambia il mondo
ma senza intervenire.Non è la soluzione esatta di questo passo non cambieremo mai, non ci alzeremo mai,
se non muoviamo un passo verso il paradiso
non verrà da noi,
così mai certezze non ne hai e inutile apettare gli altri quando sai che tutto comincia se lo vuoi¹.
Non c’è un motivo in particolare, è stato in tutto il suo insieme un anno faticoso. Un anno dove ho sperimentato a volte la solitudine, dove a volte non vedendo tornare niente indietro mi sono chiesta quanto davvero tutto il mio “fare” avesse costruito qualcosa, nei rapporti.
E’ stato un anno in cui mi sono scontrata più di una volta con la difficoltà di mettere insieme gli ideali di vita e la nuda e cruda realtà di quello che sono, di quello che siamo.
Ma, nonostante, e anzi, forse per questo, dico grazie lo stesso a questo anno che finisce. Perché ha segnato, in modo marcato, tante cose nel mio cuore e nella mia testa.
Non che siano mancati i momenti belli, le risate, i sorrisi, gli abbracci. Parole di stima sussurate in un orecchio nel primo caldo di giugno, i risultati nello studio. Amici vicini, e forse più quelli “lontani”, che sanno esserci. Persone speciali che nella loro estrema e infinita delicatezza sanno ascoltare e comprende anche quello che non dici o non sai dire perché nemmeno tu, fino a quel momento, l’avevi compreso davvero. E loro riescono a tirartelo fuori così … con un banale sms, a volte.
Tanti giri a vuoto, tante occasioni perse. Tante immagini confuse, alcuni altri momenti che gli occhi hanno impresso senza il bisogno di una macchina fotografica per poterli ritirare fuori, più nitidi di uno scatto.
C’è tanto in questo 2014. Ma non voglio farne un bilancio. Sono convinta che ogni anno non possa essere un capitolo a parte della propria vita. Tutto concorre a farci essere quello che siamo, come siamo. E come saremo.
Non avevo propositi e non ne farò per il 2015: il mio cuore sa di cosa c’è bisogno senza doverlo scrivere qui.
Ma so anche che, qualsiasi cosa sarà il 2015, non potrà che esserlo così proprio perché così è stato il 2014. E dovrà saperne esserne riconoscente
Sento forte una parola, che vorrei fosse il trede union tra il punto di arrivo e di partenza che il calendario ci impone, ma che non voglio vivere come tale. #Ricominciare.
Ricominciare con gli altri. Ma sopratutto ricomincare con me stessa. Alzarmi, svegliarmi dal torpore, da quella posizione dove può venire la tentazione di maledire la vita, che non ci risparmia mai nulla. Neppure domande che paiono senza risposta, o a cui per rispondere bisogna dar fondo a tutte le risorse possibili per non credere che le risposte siano confezionate.
Per poter un giorno accendere di nuovo lo stereo e poter urlare, a squarciagola
In questa stanza
Che m’ha insegnato un sogno
Che m’ha donato un senso
Oggi ci son solo
Immagini d’un tempoLe storie del passato scandiscono l’inverno
Di un anno ormai ghiacciato
Di un io che oggi non c’èIn questo intenso
Lungo e denso anno
Insonne ma deciso
Ho perso e condiviso
Le chiavi del destinoLe scelte fatte un tempo
Son giunte a compimento
E’ il Cielo che difende
La svolta che c’è in meOggi decido io
Oggi sono cambiato
Oggi è un giorno mio
Vivo tutto d’un fiato
Sento il mio coraggio
Non faccio un passo indietro
Oggi sono salvo
Sono il mio nuovo meIl vuoto d’amicizie sorpassate
Da facce oggi cambiate
Da sogni che son vinti
O che hanno vinto me
Gl’intenti che oggi sento
Illuminano il volto
E guidano il mio meglio
A credere che c’è²
Buon Anno. Davvero, che sia un eterno ricominciare
L’anima balbettante
Oggi pensavo: vorrei tanto anche io alzare gli occhi e trovarmi un cartello con una scritta che mi faccia ricordare … che ci sei.
E adesso, guardando fuori, ho visto uno spettacolo di colori.
L’azzurro, il celeste, l’arancione, il rosso, un po’ di giallo, il violetto, il viole, il rosa … mi sembra di vederle tutte quelle sfumature che dipingono il cielo in un’armonia che sembra suonare.
E no, non ho fatto nessuna foto da pubblicare qui sopra. Ho deciso che l’avrei guardato, a lungo. Che l’unica macchina fotografica sarebbero stati i miei occhi. E l’unica pellicola, l’anima balbettante.
Non ho visto il cartello. Ma ho visto che nuvole arrivano, scaricano. E poi, prima o poi, se ne vanno. E quando se ne vanno, l’armonia che rimane in cielo ripaga dello scroscio e di quel grigio che ha imbrigliato il cielo.
Rallentare il passo
Ieri, presa la chitarra, stavo andando verso il punto di ritrovo quando ho visto arrivare Elisabetta, che probabilmente era appena uscita dalla Metro. Mi sono fermata per aspettarla per fare quel pezzo di strada insieme, visto che andavamo nello stesso posto.
Betta è un’amica speciale, per tanti motivi, ma anche perchè combatte ogni giorno con un problema fisico che non le permette di camminare con facilità.
Ci siamo incamminate verso il punto dove avremmo trovato il resto della banda.
Mentre facevo la strada con lei, cercando per una volta di dimenticarmi il mio passo sostenuto da universitaria, mi è tornata in mente una frase che fa capolino spesso nei miei pensieri, che mi piace tanto e che tutte le volte che la leggo – e sono tante – richiede in me una conversione:
“(…) rallentare il passo per camminare insieme convinta che ero io ad averne bisogno (…)”
(da “Oltre il velo nel cuore del Pakistan” di D.Bignone)
Una frase che ho sempre trovato illuminante, e che forse a volte però ho cercato di far mia solo per “inerzia”, perché fidandomi di chi l’aveva scritta, sapevo essere vera. Ma un conto è cercare di farla propria, un altro è poi viverla.
Ecco. Ieri mentre camminavo con Betta, pur immersa nella mia stanchezza e con il cervello un poco annebbiato, forse per la prima volta “ho capito” profondamente il senso di questa frase perché era quello che stavo vivendo.
Si. Perché anche ieri rallentare il mio passo era una cosa che veniva prima di tutto in mio vantaggio e di cui io avevo bisogno: per poter guardare Betta negli occhi mentre parlava, per poter non perdere un filo delle cose che mi diceva, per poter allungare la mano ci fosse stato bisogno di un aiuto per circumnavigare un ostacolo. Se avessi fatto solo un passo in più, se non avessi rallentato, quante cose che mi sarei persa!
Mi sono gustata questa (ri)scoperta, nella ricaduta pratica di quel momento ma sopratutto pensando a quel camminare più grande che è la Vita. Mi sono venuti in mente tanti momenti e tante situazione dove invece che aspettare ho accellerato il passo. Mi è venuta la paura di non essere sempre capace di ripetere questo “rallentare” con le persone che la vita mi mette accanto ogni giorno o anche solo per una volta.
Ma mi è venuta anche una grande voglia di provarci. Di cadere quando non ne sarò capace. E di riprovarci ancora.
Convinta, per davvero, che sono io, ad averne bisogno.
#InVersioneFilosofica – Bianco o nero?
C’è una cosa che faccio tanta difficoltà a capire:
perché mai se io “critico” una cosa questo vuol dire automaticamente che stia sostenendo per forza la sua opposta? Ma possibile che debba essere tutto bianco o nero? – ma nel calcio sì, però 😛
Possibile che non esistano le sfumature, le vie di mezzo in cui stare?
Possibile che tutto debba essere estremo, “o con me o contro di me”?
Perché mai se “critico” un partito politico vuol dire che obbligatoriamente appartenga ad un altro?
Perché mai se dico che non mi piace il bianco debba essere automatico che mi piaccia il nero – uso questo esempio per esemplificare tutte le possibili casistiche?
E’ una cosa che mi capita spesso nei rapporti con le persone e che ultimamente davvero mi mette in discussione: è davvero impossibile poter conciliare posizioni senza essere tacciata di mancanza di coerenza? E soprattutto, cosa vuol dire, coerenza?