Quando valgo

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Quando tu vorresti essere ‘perfetta’, ‘imbattibile’. Sopratutto di fronte alle persone a cui ci tieni. Come se il loro giudizio su di te sia relativo alle tue ‘doti’ o non doti. Al tuo riuscire o non riuscire. Se il metro con cui ti vogliono bene sia se il programma di posta che fa le bizze sei riuscita a sistemarlo oppure no.

Ed invece devi fare i conti con le tue mancanze, i tuoi sbagli. Il non essere perfetta e avere sempre una soluzione per tutto. Il non riuscire, a volte.

È successo così. Quella paura di sbagliare, di deludere, come se non ci fosse un domani.

Tornando a casa osservavo le nuvole. Era tanto che non mi fermavo ad osservarle. E mi sono accorta che è tanto che non mi fermo ad osservare.

Guardando quel cielo immenso non è mancata qualche lacrima.
Ma quanto sono scema, ho pensato.

No. Non valgo solo per quello che so fare. Valgo prima di tutto per quello che sono. E per quello che scelgo di essere.

La signora Efisia

935737_647018518657380_231095322_nTorno a scrivere qui dopo tanto tempo.
Tante volte avrei voluto farlo ma poi sembrava che mancassero le parole. Non che le abbia ritrovate tutte, alcune giaciono in attesa di essere ripescate. Ma riprendere a scrivere qui è sempre un bell’esercizio, con me stessa.

Giovedì scorso sono andata in ospedale a trovare la nonna, che era lì da qualche giorno per una crisi d’asma.
Mi ha fatto impressione entrare nell’ospedale. Ho percorso tante volte i corridoi alla ricerca di quello giusto dove era la nonna e ho incrociato, guardando nelle stanze, tanti volti, per lo più di anziani.
Mi è venuto un groppo in gola, ma non capivo cosa lo muovesse.

Poi finalmente sono arrivata nella stanza giusta.
Nel letto accanto a quello della nonna c’era una signora con una flebo nel braccio che mi guardava.
Ad un certo punto mi ha detto: “Signorina, mi può fare un favore?”. “Certo!”.  “Mi può girare?”. “Ok”. L’ho girata e dopo mi ha chiesto di grattarle la schiena. Le ho grattato la schiena. Poi ha chiuso gli occhi, come per dormire.
Poi ha riaperto gli occhi e dopo un po’ la scena si è ripetuta.
Quando era ora di andarmene, mi sono voltata e le ho chiesto: “Come si chiama”? Lei mi ha risposto. “Efisia”. “Come scusi?”. “E-f-i-s-i-a”.
E’ una cosa che ho imparato ultimamente, quella di chiedere il nome delle persone che incontro. Mi capita al mercato, ai ragazzi che vendono gli occhiali davanti all’università… Crea un legame, chiedere il nome. Non è più solo un volto, è un universo che ti si staglia davanti e che tu per qualche minuto puoi accogliere dentro di te.
La signora Efisia. Prima di uscire dalla stanza mi ha fatto un grande sorriso.
Mi sono chiesta cosa vuol dire stare nel letto di un ospedale e avere bisogno che qualcuno ti gratti la schiena.
Sono uscita da quell’ospedale sotto la pioggia, senza ombrello. Con negli occhi il sorriso della signora Efisia che si è allargato davanti per ringraziarmi di quel piccolo servizio che le avevo fatto. Sentivo che il mio cuore per un po’ era diventato più largo e per qualche tempo aveva trovato spazio anche la signora Efisia.
Ecco, forse il groppo in gola entrando in quel luogo era la paura di non saper meritare una “vita piena”. Di non sapere avere un cuore largo. Un cuore capace di allargarsi. Che non condanna, che comprende, che accompagna.
Non ne sono capace, conosco i miei infiniti limiti con cui ho a che fare tutti i giorni. Ma almeno ci voglio, ci posso provare.

Non rimpiangere, ricomincia!

Rimpiangere vuol dire piangere due volte. Preferisco ricominciare, sempre e nonostante tutto. (I.L.)

Qualche giorno fa parlavo, davanti ad una pizza, con una persona saggia. Le raccontavo alcune difficoltà, alcuni rimpianti che ogni tanto vengono su cose passate e lei mi ha detto una frase che aveva sentito tanti anni fa: ‘non devi guardare le cose di ieri con gli occhi di oggi’.
Mi sono convinta che ha ragione.
Mi sono convinta che la nostra vita è piena di giri strani, ma solo dopo averli percorsi ci si chiarisce il senso.
Ma serve pazienza e fiducia. E serve saper ricominciare, sempre.

Esami

LibriPeriodo di esami. Per questa sessione finito.

Ieri, nel panico pre-esami ad un certo punto è riaffiorato un po’ di scoraggiamento, quella lieve e sottile sensazione di non farcela, che fosse più semplice gettare la spugna. Un esame tosto, per un’informatica come me che si trovava a dover padroneggiare e contenere il mondo della filosofia, anche se in ambito comunicativo. Soprattutto quella impressione, quello scrupolo di non essere abbastanza preparata e non essere sicura di aver davvero fatto fino in fondo la mia parte.

Ma una persona saggia mi ha ricordato una cosa. Che sì, quando affrontiamo un esame ci piacerebbe sapere la domanda in anticipo per poterci preparare per bene. Eppure, eppure ci aspetta un esame di cu conosciamo argomento e domande con molto anticipo ma … rischiamo seriamente di non essere preparati mai abbastanza lo stesso.

Ricominciare. Sempre.

Metafore di vita.

PallavoloInfine ci si mette anche il punteggio e il suo continuo riazzeramento alla fine di ogni set. Ovvero, pensateci: hai fatto tutto benissimo e hai vinto il primo set? Devi ricominciare da capo nel secondo. Devi ritrovare energia, motivazioni, qualità tecniche e morali. Quello che hai fatto prima (anche se era perfetto) non basta più, devi rimetterlo in gioco. Viceversa, hai perso il set precedente? Hai una nuova oggettiva opportunità di ricominciare da capo.

(lettera di Mauro Berruto, allenatore della nazionale italiana maschile di pallavolo)

La nebbia. E un tir.

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Ieri sera ho guidato da Busto Arsizio, dove sono stata a vedere una partita di pallavolo, fino a casa. Ho macinato un po’ di chilometri, al ritorno guidando attraverso grandi banchi di nebbia.

Mi è sembrata rappresentare, in ogni sua fase, la metafora di una vita. Quella vita che a volte è anche un po’ la mia.

Succede così. Che tutto sembra chiaro, limpido. E allora si va spediti.
Poi però incontri un banco di nebbia e allora devi rallentare, devi fare attenzione. Devi ‘cercare’. A volte neanche accendere gli abbaglianti o i fendinebbia migliora molto la situazione. Non vedi dove vai, ti chiedi che cosa ci sarà il prossimo metro.
Ma sono domande che restano senza risposte e non puoi che fare altro che continuare ad andare avanti, nella speranza che prima o poi si diradi un po’ quella nebbia che invece in certi punti sembra essere ancora più densa e pericolosa.

Poi succede che arriva un tir, con tante luci sul posteriore che sembra un albero di Natale. Ti si piazza davanti ed incosapevolmente ti fa strada. Ti guida. Illumina quel pezzo di asfalto davanti a te, non può certo far sparire la nebbia, ma apre dei varchi nell’incertezza e nella confusione.
Non sempre ti ‘tira la volata’ fino alla fine, ma ti da un aiuto indispensabile per quel pezzo di strada che condivide con te.
Alla fine la nebbia si dirada. A volte, non sempre.

Questa la storia che ho vissuto ieri sera alla guida di una auto. Questa la storia che vivo ogni giorno: da automobilista, ma magari inconsapevolmente anche da Tir.

Un pezzo di pizza

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Vi ricordate la mia amica D.?
Oggi ne ha combinata un’altra.

Quando riesce alla mattina va a salutare un ‘amico’ in pieno centro, a Torino.
Stamattina, mentre usciva, al cancello c’era un signore che mendicava.
Lui stava lì, accovacciato e quasi nascosto da una pianta, chiedendo una moneta. Ma è sempre una storia molto complicata il rapporto con chi mendica. E spesso D. si trova in queste situazioni con un grosso peso nel cuore.
D. gli ha fatto un sorriso e gli augurato buona giornata. Già superare il muro dell’indifferenza è un buon punto di partenza.

Ma poi un pensiero: oggi per pranzo da casa si era presa della pizza. Perché non condividerne un pezzo con lui?
D. non ha voluto nemmeno ascoltarla, quella vicina sottile che provava a dissuaderla.
Ha aperto lo zaino e ha preso, dei due che aveva con sè, il più grosso dei pezzi di pizza.
E gliel’ha porto.
Ha ricevuto in cambio un sorriso e un grazie commosso di quella mano tesa che aspettava da lei una moneta.

Il quarto gancio

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Stavo riposando la chitarra nella sua custodia.
Gancio1 chiuso, gancio2 pure. Il terzo ha fatto un po’ più fatica ma poi è andato.
Ma il quarto no, non ne voleva sapere, perché avevo lasciato la tracolla attaccata e giustamente sporgeva un po’ dalla custodia.

Che fare? La tentazione data l’ora: lasciare tutto così, tanto con gli altri ganci chiusi non sarebbe successo nulla.
Ma poi no. Meglio chiuderla per bene. Ho riaperto il terzo gancio ma niente, non bastava.
Così sono dovuta tornare indietro e aprire tutti i ganci, ho sistemato la tracolla dentro alla custodia e ho richiuso il tutto.

Mi è sembrata la metafora di una vita: a volte quando qualcosa non funziona, anche nei rapporti con le persone, bisogna ‘riavviare’ il nastro, Ricominciare come se nulla fosse successo.

Date e vi sarà dato

SpigheUn’amica, che chiameremo D., mi ha permesso di raccontare la sua esperienza.

Lei è una 25enne, per adesso informatica, un po’ fissata con una vita che si possa equilibrare tra i piedi ben piantati a terra con le cose ‘dai tetti in sù‘.
Direi che potrebbe quasi quasi esser la mia, di descrizione.

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